Köder, Mi avete dato da mangiare (Le opere di misericordia corporale)

Sieger Köder, Mi avete dato da mangiare (Le opere di misericordia corporale), olio su tela XX sec. Collezione Privata.jpg

Sieger Köder, Mi avete dato da mangiare (Le opere di misericordia corporale), olio su tela XX sec. Collezione Privata


Köder, il pittore con la tonaca che dipinse la misericordia


Sieger Köder, artista scomparso recentemente, sacerdote tedesco che ha illustrato quasi tutta la Bibbia, condensa tutte le sette opere di misericordia dentro una casa. Le rivisita con un’edizione, per così dire, familiare. Certo non è una casa qualunque, è la casa di Betania, la casa di Marta, di Maria, di Lazzaro. È la casa degli amici di Gesù.
In primo piano ci sono mani che danno da mangiare, spezzano il pane per un povero; come ha fatto Cristo con noi, prima di morire. Questo gesto è la chiave d’apertura per tutto il dipinto. In una casa, prima del pane o del cibo, si spezza il proprio cuore, il proprio corpo, in favore di coloro che amiamo.
Segue una donna vestita di rosso. Rimanendo tenacemente ancorato all’antica tradizione, che riconosceva in Maria di Betania la Maddalena, Köder la veste appunto di rosso, con i capelli sciolti. In lei si nasconde anche un’altra donna del Vangelo cui Cristo ha chiesto da bere: la samaritana. Non fa meraviglia che l’uomo assetato abbia il volto di Gesù, egli stesso aveva detto: «Un bicchiere d’acqua dato a un povero nel mio nome, sarà come dato a me». L’acqua del resto, segna il centro del quadro. Di che cosa abbiamo sete? (e qui il riferimento alla Samaritana è evidente). Nella calura dell’estate giunge appropriata la domanda: di che cosa abbiamo sete?
La risposta viene dal fondo della casa dove la padrona, forse Marta di Betania, apre la porta a un pellegrino: abbiamo sete di essere accolti, di trovare ristoro nell’amicizia gratuita e sincera, di essere consolati nelle nostre infermità spirituali e, soprattutto, abbiamo sete di essere perdonati. La strada non sempre è un bel luogo. Lo sanno i molti costretti a vivere per le vie, lo sanno i nostri adolescenti, lo sanno le pagine di cronaca dei nostri giornali. Ma al timore della strada si contrappone il calore della casa. È il senso del giubileo: anche questo pellegrino passa da una porta. Abbandona la precarietà della strada ed entra nella familiarità consolante di una casa. Dietro a lui si spalanca un orizzonte su campo rosso (rosso come l’abito della Maddalena) e con al centro una croce, anzi, una tomba. Ecco di che cosa abbiamo sete: abbiamo sete di eternità. Accanto all’abbraccio di Marta vediamo un ammalato; un ignudo da vestire; alle sue spalle un carcerato da visitare. Sono le tre piaghe della nostra vita: le infermità; le nudità umane e psicologiche; le nostre colpe. Tali piaghe saranno risanate, totalmente, da un abbraccio di misericordia.
Questo abbraccio non è quello di Marta, ma, nel suo, è quello di Gesù. Così praticare la misericordia significa dare all’uomo il perdono che Cristo stesso ci ha dato; fare del bene per testimoniare che Cristo stesso ci ha salvato. Non è, la Chiesa mera, opera assistenziale, ma è anzitutto annuncio di una vita che non muore, la stessa che si spalanca dietro la stretta di Marta. La stessa annunciata dalla Maddalena la notte di Pasqua; la stessa che dobbiamo testimoniare noi quando, dopo essere passati per la porta giubilare, siamo ammessi a quella familiarità con Dio che è promessa di un abbraccio eterno.
Avvenire 7 luglio 2016

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